Ci sono molte persone che criticano e giudicano. Per loro va bene: così si scaricano e si sfogano. Altre, invece, si rendono conto che il giudizio critico limita ed è un problema. Allora si sforzano di cambiare abitudine, ma l’automatismo è troppo forte e si ripresenta continuamente. Il giudizio implica un rifiuto di qualcosa che negli altri ci infastidisce. Vogliamo allora prenderne le distanze, sentendoci migliori e lontani da quelle caratteristiche riprovevoli. Il rifiuto esprime spesso una rabbia che allontana, fomentando separazioni e conflitti. Quel che ci turba, tuttavia, è il fatto che certi aspetti degli altri coincidano con quelli che non accettiamo in noi stessi. Il giudizio corrode l’energia pur garantendo piccoli piaceri basati sul principio elementare della scarica fisiologica. Giudicando l’altro, mettendolo alla berlina e ponendoci su un gradino più alto, attiviamo non solo le zone del cervello collegate alla produzione di dopamina e di altri neurotrasmettitori del piacere, ma crediamo anche di elevarci compensando insicurezze interne difficili da ammettere. Così facendo teniamo in vita una contesa aspra e distruttiva tra parti del Sé impossibilitate a comunicare adeguatamente. Il rifiuto di qualcosa, che vediamo negli altri ma ci appartiene intimamente, genera una frattura interna accompagnata da emozioni di rabbia, paura e malessere. La sospensione del giudizio può solo avvenire quando, in noi, facciamo spazio all’accettazione e all’armonia. Solo quando ci avviciniamo con accoglienza e tenerezza agli aspetti rifiutati, possiamo allora includerli nella nostra vita psichica, attenuarne il peso, trasformarli in un’occasione di crescita. Questo cammino, per nulla facile e scontato, è l’unica via che consente di prenderci la responsabilità della nostra vita e di integrare i vissuti emergenti senza cedere alla tentazione di proiettare fuori ciò che non è stato risolto dentro.
dott. Roberto Costantini
Presidente ASPIC Scuola Superiore Europea di Counseling Sede di Ancona