Molte persone vogliono stare tranquille e vivere nella loro zona di comfort. Non amano essere sollecitate ad intraprendere un viaggio che le costringa a “lasciare la strada vecchia per quella nuova…”. Preferiscono non vedere, gettare la propria immondizia sotto il tappeto ed aspettare, e sperare, che la vita sia generosa con loro, che possa accadere qualcosa di magico. Nel frattempo “mal comune mezzo gaudio” e ognuno con le sue disavventure in una lamentazione corale che consolida l’appartenenza. Più comodo sperare che la ruota della fortuna giri e, prima o poi, arrivi il proprio turno. Le aspettative crescono fino al punto di attendere che la vita restituisca ciò che non si è avuto nel passato. Ma qui non c’è coraggio, non c’è avere cuore e procedere a cuore aperto. Qui, piuttosto, ci sono griglie mentali rigide e una configurazione interiore che ha perso ogni dinamicità smettendo di vibrare insieme alla vita. Tutto ciò si tramuta facilmente in vittimismo. La vittima vuole un salvatore che la comprenda fino al punto di annullarsi per lei, rinunciando ai propri bisogni. La vittima, al contrario, non dà niente. Pretende e nella quasi totale inconsapevolezza proietta nell’altro tutto ciò che rifiuta di sé costruendo quella tela che si può definire “gioco relazionale”. Assistiamo allora a un enorme dispendio energetico finalizzato semplicemente a mantenere il sistema nel suo equilibrio statico con l’obiettivo di neutralizzare qualsiasi stimolo perturbante, vissuto come una minaccia. La vittima vuole rimanere tale anche quando trova un salvatore empatico e “generoso”. Succhiare e rimanere nella posizione vittimistica portando gli altri dentro la propria rete di lamenti e giustificazioni: questo è lo script che si ripete giorno dopo giorno. La vittima non intende assumersi alcuna responsabilità e, quando il salvatore non riesce a soddisfare le sue esigenze, si trasforma immediatamente nel carnefice che, con critiche e rabbia esagerate, rimprovera l’altro di non dare ciò che è lecito aspettarsi da lui/lei. Non esiste una soluzione all’interno di questo soffocante circolo relazionale, infatti nulla può e deve cambiare. La vittima non vuole cambiare, né prendersi la più piccola responsabilità, altrimenti non rimarrebbe così a lungo nel ruolo. Eppure l’unica risposta è proprio in quella presa difficile di responsabilità, senza la quale è impossibile uscire da questo schema e dal malessere del “triangolo drammatico” appena descritto (vittima-salvatore-carnefice). La responsabilità è un atto di amore per se stessi, una strada avventurosa che, con l’ascolto e il contatto con la propria anima, conduce verso un domani più consapevole nella direzione della felicità dell’Essere.
dott. Roberto Costantini
Presidente dell’ASPIC Scuola Superiore Europea di Counseling Sede di Ancona