di Roberto Costantini
Nel giudicare c’è il rifiutare. Quello che critico nell’altro quasi sempre porta alla luce il rifiuto di uno o più aspetti di me che voglio tenere a distanza. Il giudizio toglie la libertà e fomenta l’insoddisfazione verso il mondo e verso se stessi. Purtroppo nell’atto del giudicare c’è anche un piacere (si attivano i circuiti cerebrali di ricompensa): un piacere tossico come pochi altri. Giudicando le vite degli altri crediamo di salire su un gradino più alto, ci sentiamo forti e senza macchia. Chi critica e svilisce il prossimo tende a ricercare, per lo più in modo inconsapevole, il godimento insito nello stabilire gerarchie, nel dominare, nel distinguersi nettamente. È così frequente scambiare il piacere con la felicità! E anche della felicità ci facciamo spesso un’idea sciocca, zuccherosa e semplicistica. Crediamo allora che essere felici significhi soddisfare il capriccio del momento e appagare le brame di un ego frustrato. Dobbiamo invece educare l’ego a trascendersi per andare verso la felicità dell’Essere. Questo perché la felicità non è un possesso, ma la partecipazione a un dono che viene da una Fonte misteriosa e che desidera essere ricomunicato. Felici, in altre parole (e lo sapevano bene gli antichi greci), possiamo esserlo solo con gli altri. Chi rinuncia al giudizio sui singoli individui sviluppa una comprensione più equanime e impara a guardare i propri limiti come un campo sterminato di esercizio spirituale. Al posto del rifiuto e delle condanne senza appello mettiamo un paziente lavoro interiore che ci consenta di riscoprirci persone come tutte le altre e, quindi, uniche e irripetibili.