di Roberto Costantini
Maggiore è il grado di insicurezza interna, maggiore sarà la paura del cambiamento. Quando ci sono paure ancora attive aumenta il bisogno di controllo e di rassicurazione: la prevedibilità permette di calmare in parte l’ansia verso l’ignoto. Questa autoprotezione impedisce di esplorare il nuovo e confina la persona nel recinto delle sua abitudini, in quella zona di comfort che può facilmente diventare soffocante. Se ci sentiamo fragili e impauriti tenteremo di ridurre al minimo le sorprese, i contrattempi e impegneremo tutte le nostre energie per cautelarci rispetto a ipotetiche minacce. Il problema più grande rimane, comunque, quello dell’attaccamento alle paure genitoriali. Paure esterne, da piccoli, che vengono poi introiettate e fatte proprie. Questi attaccamenti rendono scadente la qualità della vita e impongono al soggetto uno stile esistenziale meno libero e fiducioso. Il mantello oscuro delle paure sembra proteggere da un mondo cattivo, in realtà opprime e rende inaccessibili le nostre risorse più positive. Gradualmente dobbiamo imparare a spogliarci delle strategie di autodifesa che ci imprigionano in uno spazio angusto. Khalil Gibran, il grande poeta libanese, un giorno ha scritto: “Il pensiero è un uccello dell’immenso, che in una gabbia di parole può anche spiegare le ali, ma non volare”. Parafrasandolo potremmo dire che la nostra anima è un uccello dell’infinito che nella gabbia delle paure può anche sopravvivere, ma non può spiccare il volo.